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Diritti d’Immagine: Affari Saltati per Clausole Shock

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Scopri come l’immagine di un atleta può decidere le sorti di un intero trasferimento

Può un contratto milionario crollare per una sola firma mancante? O meglio, per una clausola nascosta tra le righe? Negli ultimi anni, i diritti d’immagine sono diventati l’arma silenziosa che decide il destino di grandi trasferimenti e sponsorizzazioni nel mondo dello sport. Non più solo questione di piedi, motori o racchette: a far saltare gli affari oggi basta un selfie pubblicitario non autorizzato.

Per capire la portata del fenomeno, basta ricordare che persino il trasferimento di Lionel Messi al Barcellona nel 2000 si complicò per questioni legate alla gestione d’immagine. Oggi, vent’anni dopo, la situazione è ancora più esplosiva: l’immagine vale quasi quanto il gol. Secondo un’indagine pubblicata da FIFA, oltre il 70% dei calciatori di élite guadagna più da sponsorizzazioni che dallo stipendio sportivo.

L’origine dei diritti d’immagine nello sport

I diritti d’immagine non nascono con gli influencer: nascono molto prima, negli anni Ottanta, quando star come Diego Armando Maradona o Ayrton Senna cominciarono a diventare marchi viventi. La loro faccia appariva sulle maglie, negli spot televisivi, persino sui peluche dei bambini. A quel punto, chi possedeva quell’immagine? Il club o l’atleta?

Le prime clausole documentate nei contratti sportivi europei risalgono al 1984, quando il Napoli inserì una sezione specifica che permetteva alla società di usare l’immagine del giocatore per fini commerciali entro certi limiti. Da lì, ogni campione diventò anche un prodotto.

Un’immagine controllata è potere economico. Ma è anche fonte di infinite tensioni. Quando il confine tra visibilità e sfruttamento diventa labile, la trattativa rischia di esplodere. Ed è proprio quello che vedremo nelle storie più celebri degli ultimi anni.

Trasferimenti saltati e clausole shock

Nel calcio moderno, i diritti d’immagine possono costruire una carriera o distruggerla in un pomeriggio. Le cifre sono astronomiche, ma ciò che davvero pesa è il controllo.

Uno degli esempi più discussi riguarda un fuoriclasse portoghese il cui trasferimento verso l’Inghilterra si arenò per una “clausola shock” sui diritti d’immagine. Il club voleva il 100% dei guadagni derivanti da spot e social media; il giocatore, invece, pretendeva autonomia totale. Risultato? Contratto sfumato e milioni andati in fumo.

Non si tratta di casi isolati. Anche nel basket europeo abbiamo visto trattative deragliare per dettagli simili. Persino squadre prestigiose come il Real Madrid o il Bayern Monaco hanno dovuto rinegoziare accordi per adattarsi alle nuove logiche del mercato d’immagine. In Formula 1, poi, la gestione del brand personale è diventata una scienza: ogni casco, ogni tuta, è oggetto di contratti separati. Un errore di stampa o un logo fuori posto può portare a penali pesantissime.

La differenza tra un accordo riuscito e uno fallito è spesso una firma sulla clausola di sfruttamento commerciale.

In Italia, il caso più emblematico resta quello di un celebre attaccante che, durante il suo passaggio a una big del nord, rifiutò di cedere il 50% dei suoi diritti d’immagine. “La mia faccia è mia”, avrebbe detto al manager. Il club non cedette: affare annullato. Due mesi dopo, lo stesso giocatore firmò per un’altra squadra all’estero… che gli lasciò piena libertà d’immagine. Oggi è uno degli atleti italiani più seguiti su Instagram, con contratti pubblicitari che superano gli introiti sportivi.

I campioni tra business e identità personale

Ma davvero gli atleti hanno bisogno di tanto potere sull’immagine? Sì, perché nell’era digitale non si vendono più solo prestazioni: si vendono storie. Ogni post, ogni collaborazione, costruisce un universo narrativo. E alcuni giocatori lo gestiscono come un brand globale.

Pensiamo a Cristiano Ronaldo. Il suo nome è un marchio registrato in oltre 30 paesi, la sigla “CR7” è diventata icona di stile. Ogni foto o messaggio promozionale deve passare attraverso la sua società d’immagine, gestita separatamente dal club. È questo modello a cui ormai aspirano tanti campioni emergenti.

Ma non tutti i club accettano di buon grado questa autonomia. Le società vedono nell’immagine dell’atleta una leva economica propria, parte integrante dell’investimento sportivo. Chi paga milioni per un contratto vuole anche un ritorno sulla visibilità. Da qui nascono le famose “clausole shock”: paragrafi che regolano fin nei minimi dettagli quanto, quando e come il volto di un atleta può comparire in pubblicità o social network.

Ma dove finisce il diritto personale e dove inizia il diritto commerciale?

È la domanda che domina le riunioni tra avvocati e procuratori. I calciatori più esperti pretendono ormai di separare i due ambiti, gestendo i propri ricavi pubblicitari con strutture autonome. Tuttavia, per i giovani o per chi milita in leghe minori, accettare le condizioni del club rimane quasi obbligatorio. Un paradosso del business sportivo moderno: più sei famoso, più puoi essere libero.

La nuova tattica dei club: controllo totale dell’immagine

Negli ultimi anni, le società hanno modificato la loro strategia. Non si limitano più a negoziare i diritti d’immagine: li inglobano nel modello di business. Durante le presentazioni ufficiali, il posizionamento dei loghi alle spalle dei giocatori è calcolato al millimetro. L’immagine non è un accessorio, ma un asset patrimoniale.

Molte squadre della Premier League hanno creato team di marketing esclusivamente dedicati alla supervisione di contenuti social degli atleti. In Serie A, diverse società hanno introdotto clausole che prevedono sanzioni se un giocatore pubblica post considerati “concorrenti” rispetto agli sponsor del club.

Il calcio è diventato un campo di battaglia tra sponsor, agenzie e dipartimenti di comunicazione.

E questo impatta anche sul rapporto con i tifosi. Quando tutto è filtrato, quando ogni sorriso è sponsorizzato, il pubblico percepisce meno autenticità. Alcuni supporter rimpiangono i tempi in cui i campioni apparivano “veri”, senza filtri o hashtag promozionali. Ma la realtà è cambiata: oggi, l’immagine è parte del gioco, tanto quanto il pallone.

Il dibattito tra tifosi e addetti ai lavori

Le opinioni sul tema dividono il mondo sportivo. Da un lato, chi difende la libertà individuale dell’atleta. Dall’altro, chi sostiene che il club debba tutelare i propri investimenti tuttalpiù condividendo i benefici.

È giusto che un giocatore guadagni milioni per una campagna personale sfruttando una maglia pagata dal club?

Gli avvocati sportivi rispondono: dipende. Se il contratto prevede la cessione totale dei diritti, allora ogni uso non autorizzato è violazione. Ma se l’accordo distingue esplicitamente tra attività sportive e private, il giocatore è libero di monetizzare la propria notorietà.

Questo confine labile alimenta discussioni infinite. Nessuna altra epoca sportiva ha visto un simile intreccio tra marketing e identità personale. Persino le federazioni iniziano a discutere nuove norme per armonizzare la materia. La FIFA, per esempio, ha già avviato un gruppo di lavoro per standardizzare la gestione dei diritti d’immagine nei contratti internazionali.

Anche i tifosi partecipano al dibattito. C’è chi sogna il ritorno al romanticismo sportivo, chi invece accetta la logica del brand globale. Alla fine, ciò che conta è un equilibrio: preservare la libertà del singolo senza snaturare la magia del gioco.

Eredità e futuro dei diritti d’immagine

L’evoluzione dei diritti d’immagine racconta molto più del business sportivo: racconta il cambiamento della società. In un’epoca in cui ogni gesto può diventare virale, l’immagine è potere, moneta e identità. Gli atleti non sono più solo protagonisti in campo ma ambasciatori di valori, ideali e stili di vita.

Le “clausole shock” continueranno a essere terreno di scontro. Ma forse, col tempo, club e giocatori impareranno a collaborare meglio, costruendo partnership invece che barriere. Perché l’immagine, alla fine, è la parte più visibile di un talento invisibile: la passione.

Quando un selfie può cambiare una carriera, quando un logo decide un trasferimento, il confine tra sport e spettacolo evapora. Forse è inevitabile. Ma in mezzo a clausole e avvocati resta un’unica certezza: la forza di un gesto, di un gol, di un sorriso autentico che va oltre i contratti.

In un mondo dove tutto è negoziabile, l’immagine resta l’ultimo riflesso della libertà sportiva.

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