Dall’epoca sovietica fino ai giorni nostri, scoprire la Russia ai Mondiali significa entrare nel cuore di un popolo che vive il calcio come simbolo di identità e passione
Una nazione immensa, un territorio che si estende per migliaia di chilometri e una storia calcistica fatta di trionfi, disillusioni e rinascite. La Russia ai Mondiali non è solo una squadra: è un laboratorio di emozioni, un continuo esperimento di identità, orgoglio e passione. Dai fasti sovietici ai sogni moderni, la sua traiettoria racconta molto più di un gioco. Racconta un popolo e la sua eterna ricerca di grandezza.
Scopriamo come la Russia — e prima ancora l’Unione Sovietica — ha lasciato un segno indelebile nella competizione più seguita al mondo.
Le origini: l’URSS e il calcio come simbolo politico | Gli anni Settanta e Ottanta: gloria e fratture | Il crollo dell’URSS e il difficile dopo | Russia 2018: la rinascita di una nazione attraverso il calcio | Il futuro e l’eredità del Mondiale in casa
Le origini: l’URSS e il calcio come simbolo politico
Il primo Mondiale disputato dall’Unione Sovietica fu quello del 1958 in Svezia. In piena Guerra Fredda, la selezione rossa portava con sé un peso che andava ben oltre il campo. Il pallone, in quel contesto, era un’arma diplomatica. Ogni goal valeva come un punto ideologico contro l’Occidente.
Sotto la guida di Gavriil Kachalin, l’URSS si presentò come una squadra compatta, disciplinata e tatticamente moderna. L’anima era il leggendario portiere Lev Jašin, “il Ragno Nero”, unico estremo difensore nella storia ad aver vinto il Pallone d’Oro. I suoi riflessi immortali e il suo carisma divennero il volto stesso del calcio sovietico.
In quell’edizione, i sovietici raggiunsero i quarti, dove vennero battuti dalla Svezia padrona di casa. Ma il messaggio era chiaro: il calcio dell’Est era pronto a farsi rispettare.
L’apice arrivò quattro anni dopo, al Mondiale del 1966 in Inghilterra, quando l’URSS raggiunse la semifinale, spinta dal talento di Chislenko e Porkujan. Una corsa interrotta solo dalla fluidità e dall’intelligenza calcistica della Germania Ovest. Tuttavia, quel quarto posto rimase la miglior prestazione di sempre della selezione sovietica.
L’URSS non vinceva, ma dimostrava di possedere una mentalità indistruttibile, un ordine tattico senza pari.
Negli anni Sessanta, il calcio serviva come vetrina politica in senso stretto: ogni successo calcistico era propaganda, ogni sconfitta un segno di debolezza. I giornali, strettamente controllati, raccontavano i trionfi come prove di superiorità ideologica. Il calcio, come la corsa allo spazio, serviva a dimostrare che il modello sovietico poteva eccellere in ogni campo.
Gli anni Settanta e Ottanta: gloria e fratture
Negli anni Settanta, il calcio sovietico oscillava tra la disciplina ferrea e la ricerca di creatività. Squadre come la Dynamo Kiev e la Spartak Mosca dominarono la scena nazionale e, sotto la guida di Valerij Lobanovskij, la Kiev rese il pressing e la cooperazione di squadra un’arte. Quei principi influenzarono profondamente l’approccio della nazionale.
Il Mondiale del 1970 in Messico fu un altro banco di prova importante. L’URSS raggiunse ancora una volta i quarti, eliminata dall’Uruguay dopo una gara drammatica ai supplementari. Rimase negli occhi il coraggio di una squadra che combatteva fino all’ultimo, simbolo di un popolo che non arretrava mai.
Statistica chiave: dal 1958 al 1970, la nazionale sovietica non mancò un solo Mondiale, mantenendo una media di almeno tre reti segnate a torneo—segno di un equilibrio tra solidità e spettacolo.
Gli anni Ottanta rappresentarono un periodo di contrasto. Da un lato, la generazione di Oleg Blokhin e Rinat Dasayev riportò prestigio e talento. Dall’altro, arrivarono eliminazioni premature, come quella dolorosa nel 1982, in una competizione dominata dalla stella di Rossi e dall’Italia campione.
Nel 1986, in Messico, l’URSS sfiorò la gloria: il 3-0 alla Ungheria e il 3-0 al Belgio nei gironi la presentarono come una potenziale outsider per il titolo. Ma la sfida contro il Belgio agli ottavi, terminata 4-3 dopo battaglia epica, spense i sogni. Rimase la sensazione di una squadra superiore che, tuttavia, non riusciva a trasformare la potenza in trofei.
Com’era possibile che tanto talento collettivo non bastasse per arrivare fino in fondo?
La risposta stava forse nel controllo rigido del sistema, nella mancanza di libertà creativa. Lobanovskij lo sapeva: la genialità russa esitava quando costretta in schemi troppo rigidi. Paradossalmente, quella che era la forza del collettivo — l’organizzazione, la disciplina — finiva con l’imprigionare i lampi individuali.
Il crollo dell’URSS e il difficile dopo
Quando l’Unione Sovietica crollò nel 1991, anche il calcio subì uno shock profondo. La neonata Russia ereditò parte della struttura sportiva, ma perse il senso di unità. Le repubbliche ex-sovietiche, come Ucraina e Georgia, costruirono le proprie federazioni, sottraendo talenti e identità.
Il primo Mondiale della nuova Russia fu quello del 1994 negli Stati Uniti. Simbolicamente, il gruppo era guidato da Oleg Romantsev e poteva contare sull’esperienza di Karpin, Mostovoi e Radchenko. Ma la competizione fu un disastro gestionale: tensioni interne, confusione tattica e attacchi alla federazione da parte dei giocatori portarono a un’uscita precoce nella fase a gironi.
Eppure, quel campionato regalò anche un record incredibile: Oleg Salenko siglò cinque reti in una sola partita contro il Camerun, un primato tuttora imbattuto nella storia dei Mondiali. Un lampo di gloria in una campagna altrimenti dimenticabile.
Nel 2002 e nel 2010, la Russia mancò addirittura la qualificazione. Un’assenza che pesò come una ferita nazionale. I tifosi, abituati ai fasti del passato, si trovarono di fronte a una squadra senza direzione.
Come può una potenza mondiale sul piano culturale, politico ed economico restare ai margini del calcio globale?
La duttilità tattica era sparita, la federazione era in crisi e mancava una generazione di talenti concreti. Solo con l’arrivo di tecnici stranieri come Guus Hiddink la Russia iniziò una lenta ricostruzione. L’europeo del 2008, con la semifinale raggiunta e vittorie memorabili, segnò una rinascita parziale, preludio di un sogno destinato a concretizzarsi dieci anni dopo.
Russia 2018: la rinascita di una nazione attraverso il calcio
Il Mondiale del 2018, ospitato dalla Russia, fu molto più di un evento sportivo. Fu un atto di identità nazionale. Dopo anni di scetticismo internazionale, l’organizzazione del torneo divenne una vetrina per mostrare al mondo un Paese moderno, efficiente e appassionato.
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All’avvio del torneo, nessuno credeva veramente nella nazionale di Stanislav Cherchesov. Il ranking FIFA la collocava tra le più deboli. I giornali stranieri la descrivevano come “senza mordente”. Ma l’esordio col 5-0 sull’Arabia Saudita cambiò tutto. Lo stadio di Mosca esplose. Il popolo riscopriva l’orgoglio.
Con uomini come Denis Cheryshev e il capitano Igor Akinfeev, la squadra trovò la sua essenza: spirito di sacrificio, compattezza, cuore. L’idolo del torneo fu proprio Akinfeev, decisivo nei rigori contro la Spagna negli ottavi — una delle più grandi sorprese nella storia recente dei Mondiali.
Chi avrebbe scommesso, a inizio torneo, su una Russia capace di battere il Tiki-Taka spagnolo?
Nei quarti, contro la Croazia, la corsa si fermò solo ai rigori. Ma il sentimento era chiaro: la Russia, da outsider, aveva riconquistato dignità. Lo stadio di Sochi cantava, le città festeggiavano, la nazione respirava di calcio vero. L’immagine del CT Cherchesov che applaude il pubblico con lo sguardo fiero rimane uno dei momenti simbolo di quel Mondiale.
Statistica chiave: la Russia del 2018 ha segnato 11 gol in 5 partite, miglior rendimento offensivo dal 1966.
Quel torneo non fu solo sport: fu un esperimento sociale riuscito. Rafforzò il senso di comunità e ridiede alle nuove generazioni una ragione per credere nel potere dello sport.
Il futuro e l’eredità del Mondiale in casa
Oggi, il calcio russo vive una fase sospesa. Dopo l’esclusione dalle competizioni internazionali legata a questioni geopolitiche, la domanda si impone con forza:
Può la Russia mantenere vivo il sogno calcistico senza confrontarsi con il resto del mondo?
Il Mondiale del 2018 resta un punto di riferimento. Ha insegnato che la forza psicologica può colmare i limiti tecnici, che il senso di appartenenza può generare imprese improbabili. Ha mostrato, soprattutto, quanto il calcio sia un linguaggio universale capace di unire.
Nelle accademie di Mosca e San Pietroburgo, nuovi talenti stanno crescendo sotto l’influenza di tecnici moderni. Il futuro può arrivare solo se il calcio russo saprà combinare le proprie radici di disciplina con la libertà di espressione che serve a creare campioni.
Molti osservatori sostengono che il vero lascito del 2018 non sono stati gli stadi, ma la mentalità. In un Paese dove spesso lo sport era subordinato alla politica, il calcio ha ripreso il suo spazio naturale: quello del gioco, della gioia, dell’identità collettiva.
Sezione Dibattito: La Russia tra memoria e rinascita
Tra i tifosi più appassionati, la discussione continua. Alcuni rimpiangono l’ordine calcistico dell’URSS, dove tutto era sistematico e ben costruito. Altri celebrano la passione e la libertà della Russia moderna, capace di commuovere senza vincere trofei.
È meglio essere un gigante stabile o un outsider capace di emozionare?
C’è chi guarda al futuro con ottimismo, pensando a una nuova generazione pronta a riscrivere la storia, e chi teme un declino duraturo. Ma una cosa è certa: la storia della Russia ai Mondiali non può essere ridotta a numeri e risultati. È un racconto di coraggio, identità e desiderio di riscatto.
Ogni torneo, ogni sconfitta, ogni vittoria parziale raccontano qualcosa di un popolo che non ha mai smesso di credere nel potere del pallone. Dalla rigida URSS al vibrante Mondiale del 2018, la Russia ha mostrato che anche quando la gloria tarda ad arrivare, la grandezza si misura nell’animo, non solo negli albi d’oro.
Nel calcio, come nella vita, le vittorie più durature non sono sempre quelle che si leggono sul tabellino, ma quelle che si imprimono nella memoria collettiva.
Ed è lì, tra i verdi prati di Mosca e le luci di San Pietroburgo, che la Russia continua a sognare, a resistere, a scrivere la sua eterna — e sorprendente — storia ai Mondiali.



